Passi Lenti nel Mondo è un modo di esplorare, conoscere, visitare territori.
Il mio viaggio di oggi ci porta nel Dovrefjell, un antico parco della Norvegia, appena a sud di Trondheim.
Ci sono stata nel lontano 2018, grazie a un mio amico, il professor Giovanni Valdrè. All’epoca era etologo, scrittore, direttore di varie istituzioni e, soprattutto, un curioso esploratore. Mi aveva affascinato raccontandomi del bue muschiato, un animale fantomatico, nei suoi aneddoti metà capra e metà bisonte.
Un giorno, venne a trovarmi in biblioteca – dove lavoro da oltre 17 anni – e mi sfidò con il racconto di un suo viaggio compiuto negli anni ’80, quando era presidente di un ente internazionale che proteggeva i parchi (una diramazione dell’ONU). In quella spedizione aveva visitato la tundra norvegese per monitorare alcune specie di licheni, ma l’obiettivo più segreto, e al contempo più desiderato, era localizzare almeno un esemplare di bue muschiato. Mi mostrò una fotografia, apparsa su Airone molti anni prima, in cui appariva proprio lui, sorpreso e incredulo, accanto all’animale, che aveva immortalato all’improvviso, trovandoselo davanti.
Molti anni dopo trovai una spedizione fotografica che partiva da varie città italiane (il mio volo era da Venezia) e si dirigeva verso Trondheim. Da lì, dopo molte ore di auto, si arrivava in un paesino sperduto nella natura norvegese, composto da una decina di casette di legno dipinte di rosso e bianco: era la base per la spedizione vera e propria, quella che si affrontava a piedi, con indosso un paio di ciaspole e tanta buona volontà.
Affrontare l’inverno a quelle latitudini può mettere a dura prova. Le temperature possono scendere anche sotto i -30°C per settimane. Per fortuna, quell’anno il clima fu clemente e il minimo toccato fu “solo” -18°C.
L’aspetto più sfiancante fu la camminata costante con le ciaspole, anche per 20 km al giorno, e il vento incessante che sferzava il volto.
Ricordo di essere uscita così bardata che solo qualche capello sfuggiva dal cappuccio. Il resto del corpo era coperto da maschere, passamontagna, doppio strato di guanti e un guscio ultratecnico.
Il primo giorno la camminata fu particolarmente snervante. Ore e ore sotto la bufera, illudendosi alla vista di orme fresche di pernice bianca o lepre variabile, ma senza alcun avvistamento per oltre sei ore. Le dune di neve si alternavano a ciuffi di licheni e piccoli arbusti spruzzati di bianco, l’unica variabile nel paesaggio completamente candido.
Il vento entrava nei miei bastoncini da trekking e suonava melodie che sembravano canti di sirene. Con i compagni di escursione ci siamo fermati più volte, chiedendoci cosa fosse quel richiamo-incantesimo. Solo dopo un’ora abbiamo capito che la fonte erano i tubi metallici su cui mi appoggiavo.
Quando il sole stava per salutarci, abbiamo finalmente intravisto una sagoma scura emergere su una collina. Sembrava un enorme masso.
Non era una roccia, ma ne aveva la statuarietà e la possanza. Era il primo bue muschiato della mia vita. Un esemplare maschio, solitario, che brucava la tundra.
Quell’essere, forse il più pericoloso che potessi incontrare – soprattutto perché, in quello stato di isolamento, si sente più vulnerabile – mi rimarrà impresso per sempre.
Il viaggio è proseguito per altri cinque giorni…
Abbiamo attraversato altre montagne, avvistato gruppi di maschi che si allenavano scontrandosi tra loro, e femmine raccolte in piccoli branchi, più in alto, serrate a proteggere i piccoli.
I passi, in questa terra di neve e vento, sono stati lenti, al ritmo della natura incontaminata e lontana dall’uomo.
Di essa ricordo il colore acceso dei cieli al tramonto, la candida coltre che ricopriva ogni cosa, l’isolamento profondo della montagna, l’essenza di ogni battito che ti riporta al cuore di te stesso e dell’universo che ti circonda.
La lentezza è stata mia maestra, guidandomi nell’addentrarmi nel mondo di altre creature.
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